Ho paura di June

(Stralcio tratto da I colori della fragilità)

Ho paura di June.

Dal giorno in cui l’ho vista ne ho avuto paura e ho iniziato a difendermi. Capelli corvini, occhi intensi, pelle ambrata, sopracciglia da uomo, bocca da donna: un connubio travolgente. Indossava una salopette di jeans imbrattata di terra, un paio di sandali da frate francescano; c’era qualcosa di seducente in lei, un potenziale erotico che credo lei stessa ignori.

“Salam” mi ha detto, reggendo due scatoloni tra le mani.

“Ben arrivata, ti troverai bene qui”.

“Te lo dico subito, farò un pò di rumore queste notti, devo allestire il mio studio. Comment puis-je me pardonner?”.

Dalla notte del suo arrivo lei ha preso a vivermi sulla testa, senza ritegno, come un ghiro prepotente. Di giorno, silenzio di ovatta. La notte, un allegro cantiere. Credo di essermi subito difesa da lei e sono certa lei lo abbia capito. E’ una creatura enigmatica, sfuggente, eppure così materica. Mentre scolpisce, la sua gestualità irruenta s’infila in ogni mia giuntura. Una sera mentre stava scolpendo con foga, ho intravisto le sue fragilità, qualche crepa sulla scorza dura con cui si mostra al mondo. Io ero nel mio appartamento, ci divideva un soffitto stagno, delle travi in legno e una rampa di scale, ma era come se ci stessimo annusando.

Lei non se ne fa vanto, non porta in giro le sue fragilità come trofei, blaterando “sono i miei punti di forza”. Credo qualcuna si stia rimarginando, è lei a fare il miracolo su di sé, lei con la sua creta umida tra le mani che sa di sottobosco. Non ha bisogno degli altri per guarire, lei non è come me che inseguo la felicità attraverso il consenso esterno.  

Sgattaiolo in bagno, dopo aver lasciato cadere gli abiti e la biancheria sul pavimento; sfilo gli orecchini e li adagio sulla mensolina. Adoro questa malsana abitudine, è il mio piccolo rituale: liberarmi del costume di scena strada facendo. Per il resto, sono una donna ordinatissima, maniacale. “Dipendente dalla simmetria” come dice la mia amica Miriam. Quadri, tende, tappeti, cuscini, libri, cd, persino le mollette per stendere, tutto deve rispettare un ordine preciso. Rosso. Giallo. Verde. Arancione. Ho sempre la sensazione che tutto possa franare sotto i miei piedi e tra le mie mani.

Se non fossi stata tanto precisa e scrupolosa, la mia vita, visti i presupposti di partenza, si sarebbe potuta trasformare in un grandioso flop. Qualche volta mi vedo come mia madre, un’artista capricciosa senza arte né parte che ha trascorso ogni giorno della sua esistenza tra party modaioli e amori sbagliati, psicoterapeuti abili come prestigiatori nel sfilarle quattrini e mantidi religiose come amiche.   

Avrei potuto fare la stessa fine se non mi fossi messa d’impegno a innalzare paletti, delimitare confini, seguire il mio concetto di ordine. E di simmetria! Rosso. Giallo. Verde. Arancione.

Afferro il doccino e lo direziono sulla schiena. L’acqua è caldissima, al limite del lecito. Le tensioni del trapezio cominciano a sciogliersi. Il respiro ad aprirsi. Caldo. Caldissimo. Il corpo si difende. Grida senza voce, grida attraverso la pelle.

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